Opera di segni

MAMBOR

MAMBOR

Roma, Calcografia 15 dicembre 1998 – 31 gennaio 1999

Comunicato Stampa

Disegni, su carte e cartoni di grandi dimensioni, attraverso cui Renato Mambor ha elaborato e preparato l’opera finale (pittorica, comportamentale, teatrale) e che consentono di rappresentare la sua intera attività, dagli esordi ad oggi.

La Mostra, curata da Luigi Ficacci, nasce dalla convinzione che, con l’avvenuta dichiarazione di esaurimento dell’avanguardia, sia ora dovere della storiografia artistica generale subentrare con i propri strumenti alla militanza creativa della critica di punta. Postulando di conseguenza come cronologicamente superata anche la fase del rifiuto dell’avanguardia da parte delle istituzioni e della storiografia costituita, la Calcografia dedica ad uno dei protagonisti dell’avanguardia romana, una mostra che segue la propria tradizionale metodologia storiografica. Vale a dire che indaga, nell’opera di Mambor, la concezione del disegno, l’utilizzazione concettuale e non tecnica della mediazione calcografica, l’idea della serialità come strumento di comunicazione dell’esperienza artistica.

Renato Mambor esordisce nel 1959, a ventitré‚ anni, assieme a Cesare Tacchi, in mostra con Mario Schifano. Ô l’ambito dei serrati accostamenti d’avanguardia tra Roma (Schifano, Uncini, Lo Savio, Tacchi, Festa, Angeli), Milano (Manzoni, Castellani, Bonalumi), la Francia (Klein e il critico Pierre Restany, impegnato nel sostegno del suo “Nouveau R‚alisme”) proposti da Emilio Villa nella propria galleria “Appia Antica”. Segue il riconoscimento nel 1960 tra i “Premi di incoraggiamento” della Galleria d’Arte Moderna; le mostre collettive alla Galleria “La Tartaruga” di Plinio De Martiis (1963, 1964 e anni seguenti) che mettono a fuoco la riconoscibilità di un gruppo Mambor, Tacchi, Lombardo, con caratteri distinti rispetto ai protagonisti delle esperienze avanguardistiche romane del momento.

Di questa fase iniziale saranno esposti alla Calcografia opere riconducibili alle serie Segnali stradali del 1961; Uomini statistici 1962; Uomini timbro 1963. La Mostra inizia pertanto affrontando la tematica della ricerca di un’arte spogliata dall’esistenzialismo passionale e dalla funzione narrativa; un’arte che ipotizza il suo progresso linguistico nella visione il più possibile anonima e convenzionale. E’ un’improvvisa corrente giovanile nella Roma tra 1959 e 65 che i critici di punta, come Calvesi o Restany, definirono allora Neo Dada, e che trovava la propria condizione di autenticità e di innocenza nell’azzeramento linguistico, nella riduzione dei problemi a termini minimi, nella divertita accoglienza della civiltà di massa. Ma l’atto artistico era condotto con una spensieratezza così nuova che le monocromie e le immagini stereotipe, che accomunavano Schifano, Festa, Angeli, Pascali, Mambor, Lombardo, Tacchi, risultavano portatrici di uno straordinario sentimento vitalistico e di sconosciute qualità pittoriche.

Le opere di Mambor in questi anni indagano i campi della convenzionalità iconica, parallelamente all’uso dell’informazione segnaletica e della stereotipia delle immagini. Attratto dalla moltiplicabilità anonima dell’immagine, Mambor arriva alle “campionature” di uomini “statistici”, avendo ridotto la matrice delle figure a timbro.

La successiva evoluzione della disposizione “segnaletica” dell’arte è rappresentata nella Mostra dalle opere della fase dei Ricalchi (1965-66) fino alle Scomposizioni (1967): illustrazioni di azioni e verbi elementari (camminare, abbracciare, asciugarsi, chiudere la porta) con conseguente riappropriazione del loro significato, dove è l’arte a produrre un rinnovato ed innocente apprendimento elementare, ma attraverso un’esibita neutralità esecutiva che discende dal rifiuto di considerare l’artista come un individuo privilegiato nella società

E’ la fase della diffusione dell’esperienza e dell’azione artistica nella società: “L’arte è dentro la vita. Basta modificare il nostro sguardo. Perché‚ ciò avvenga è necessario cambiare pensiero”. La sottile rete delle relazioni mentali tra osservatore e realtà, porta Mambor, alla fine degli anni Sessanta, ad un’attiva provocazione di tempi e di spazi, al coinvolgimento dell’osservatore, fino a che l’esperienza artistica prende in lui la forma dell'”azione” e della teatralizzazione concettuale della propria arte. Questo accade verso il 1968-69, analogamente all’evoluzione in questo senso di Prini, Mauri, ed in generale di tutta la compagine dell’avanguardia romana coinvolta nell’occasione del “Teatro delle Mostre”, maggio 1968, alla galleria “La Tartaruga”.

Ultima riflessione, 1969; Cane 1970, sono le opere che rappresentano in Mostra questa fase di crisi radicale, che apre all’esperienza collettiva di Evidenziatore, 1971-74 (installazione realizzata per la Biennale di Venezia e riproposta in questa circostanza alla Calcografia).

Dell’esperienza teatrale, comportamentale, pittorica degli anni Settanta e Ottanta, la Mostra presenta l’esito figurativo nella produzione più recente di Mambor. Qui lo stereotipo è trasformato nella sagoma dell’artista, come segno di identità umana in senso generale, e guida di un percorso di riflessione sui modi dell’esistenza collettiva e della percezione individuale rispetto ai significati essenziali dell’esperienza artistica (L’osservatore; Il Decreatore; Testimone oculare; Piccoli segnali, Uomo Geografico; I pesi della terra).

La mostra comprende 70 opere su carta e cartoni (70×100; 50×70) ed alcuni assemblaggi fotografici o carte integrate con oggetti che coinvolgono una porzione di spazio ambientale.

di Luigi Ficacci

Era stata dunque Federica Di Castro a proporre nel programma delle mostre della Calcografia, questa delle ‘carte’ di Mambor. E’ un dato sufficiente per permetterci oggi di ricostruire e comprendere le ragioni della sua scelta: nell’opera di Mambor, Federica doveva avere individuato una molteplice valenza di attinenze con le problematiche storico artistiche che costituiscono l’identità museale della Calcografia. Non c’è dubbio che queste attinenze possano riconoscersi in aspetti come l’uso del disegno sotto specie di progetto analitico per l’espressione del concetto (per riferirsi ad alcune delle opere qui esposte, Scarpa 1960, Semaforo 1960, Studio sul tramonto del sole 1967, …); il ricorso alla mediazione di una matrice per derivare l’immagine (il timbro; lo spruzzo attraverso la sagoma di una maschera; il ricalco; il rullo); l’impiego di mezzi fotografici secondo esigenze diverse; il riferimento semantico alla serialità e ai vari procedimenti di tecnica indiretta, come strumento della comunicazione inter-soggettiva dell’esperienza (e della condizione) artistica. Se questo è vero, allora è vero anche che la mediazione calcografica, tanto nella sua accezione tecnica che in quella metaforica, può costituire un punto di vista critico con cui traversare la produzione di Mambor. E’ d’altronde il punto di vista imposto dall’identità stessa della Calcografia, delle sue collezioni e dai contenuti storico artistici ad essi connessi. Sono indizi sufficientemente consistenti e significativi per trarne la fiducia che questo fosse il movente critico di Federica Di Castro e che su questa base noi, i suoi compagni di lavoro, e la sua istituzione, si possa dare realtà al suo progetto, e ricordarla così, ad un anno dalla sua scomparsa. Questa mostra ‚ tagliata, attraverso l’opera di Mambor, dall’orientamento, dalle scelte e dalle focalizzazioni indotte dalla Calcografia stessa, per propria identità storica. Dall’imposizione (non dall’impostura) della propria identità storica, la Calcografia a sua volta riceve, dal confronto con Mambor, conseguenze che oggi, alla vigilia dell’apertura della mostra, ci sono ancora ignote. Ma la mostra, ogni mostra, è un lavoro, non nella sua preparazione -questo è ovvio-, ma nello svolgimento della sua durata: dal bilancio di quello che sarà avvenuto, e potranno essere solamente avvenimenti di trasformazione di definizioni storiografiche, potremo valutare se la nostra istituzione conserva un’identità valida per comprendere anche fenomeni dell’arte risalenti agli ultimi cinquant’anni, e quindi in transizione tra attualità e definizione storica, e per imprimere un segno della propria collocazione museale a quegli stessi fenomeni. In alcun caso la Calcografia può essere considerata una sede neutra. La sua identità museale si impone come un termine di confronto ad ogni elaborazione culturale si operi al suo interno. E’ necessario riconoscere che, quando il Museo, luogo di storia ed istituzione, interviene sull’arte contemporanea, la sua partecipazione non può che essere ‘pesante’,aggiungendosi, a modo proprio, alle altre fondamentali ‘pesantezze’ sull’arte contemporanea esercitate dai suoi protagonisti, gli artisti stessi, ed anche dalla critica eventualmente, quella che, al momento, eserciti un funzione “di punta”. E’ la partecipazione attiva che determina il fluire delle cose. Anche il Museo, di per sè, sarebbe parte attiva, e l’esercita attraverso l’imposizione delle proprie condizioni. Le ‘condizioni’ non sono un vincolo, sono un’identità culturale, che può determinare un orientamento determinato e, più o meno convenzionalmente, obbligato. E’ quello che definiamo ‘metodo’, perché‚ nelle discipline storiografiche si chiama così e perché‚ il Museo è l’effetto di una disciplina storiografica: la storia dell’arte. Il Museo esiste, in Italia, inquanto esiste la Storia dell’Arte. Se non si trova in questo contesto, allora è un’altra cosa: collezione come rappresentazione o autorappresentazione, con tutte le forme derivanti. Non vale la pena di descriverle perché‚ non è il caso del Museo, pubblico ed istituzionale, italiano: da cento anni il museo italiano è storia dell’arte. E siccome le identità sono tali solo se vengono costantemente confermate, ecco: le riconfermiamo anche ora, per rendere esplicito il carattere del luogo e le sue conseguenze sulle particolarità dell’itinerario che produce questa volta, attraverso l’opera di Mambor. Il Museo in questo caso é l’Istituto Nazionale per la Grafica, con le sue due componenti storiche, il Gabinetto Stampe e la Calcografia. Il confronto con Mambor si tiene alla Calcografia perché, nell’Istituto Nazionale per la Grafica, é questo il luogo storicamente deputato all’esperimento e all’indagine sul contemporaneo (dove si intende: sull’attualità dei linguaggi). Le ‘condizioni’ sono quelle che, per propria intrinseca forza critica, hanno dettato i temi di questa mostra. Le condizioni imposte dal luogo sono l’implicito confronto, almeno metodologico (questo imponiamo noi; diversa, ed originale ed incomparabilmente più complessa, è la risposta che può provenirne dall’artista) con la globalità delle collezioni dell’Istituto (dal disegno antico al moderno, dalla stampa antica alla moderna) e con i problemi storico artistici conseguenti: l’itinerario tra il disegno preparatorio e l’immagine finale, dunque le connessioni interne al percorso formativo dell’immagine; le molteplici tecniche della calcografia; le problematiche della riproduzione fino alla fotografia. Ribadire ciò che è ovvio può essere necessario perchè le parole sono, come si sa, molto stanche e se uno dice ‘condizione’, nell’accezione comune la parola può apparire debole e, se pronunciata da un’istituzione, può sembrare esprimere ‘vincolo’, come a dire: impossibilità. Ribadire il significato serve ad affermare esplicitamente ciò che nella storia dell’arte si esercita comunemente, secondo cui la ‘condizione’ risulta un’identità assolutamente attiva, la regola che consente la libertà, e l’unica che legittima il lavoro sul contemporaneo del Museo storico, giacchè sono altri, per tipologia, i luoghi pi- leggeri e complici che possono garantire più agilmente la funzione della ‘presentazione’ dei fenomeni artistici dell’attualità. Le condizioni, possono anche precisarsi in cose molto pratiche e spesso esteriori, e apparentemente insignificanti. Sono anche vincoli quantitativi, dimensionali, tecnici. L’immagine potrà anche, nella sua libera fenomenologia, confondere le tecniche stabilite, sconfinare, emanciparsi dall’oggetto, disperdersi nello spazio e nell’immaterialità. Questo museo, per propria identità, conserva e raccoglie opere, ed opere di categorie tecniche definite, e ne tratta gli effetti ed i problemi connessi. Quando interviene, non può farlo che con i propri caratteri ed imponendone le conseguenti condizioni. Per propria identità, la Calcografia impone un’attenzione alla tecnica, ed in particolare alla comparazione tra i vari modi grafici e calcografici. Allora, questo vincolo diviene una condizione particolarissima e non priva di interesse se applicata ad un’esperienza neo avanguardistica, come quella di Mambor, che passa attraverso la fase del rifiuto della tecnica. D’altronde si tratta di una questione capitale della storiografia contemporanea: moderno ed avanguardia si affermano rovesciando la tecnica costituita ed indagando il territorio dell’anti tecnica, dal quale presto si stabiliscono tecniche alternative, per essere riconosciute a distanza di tempo come fenomenologie di evoluzione della Tecnica. L’azzeramento pittorico delle neo avanguardie degli anni Sessanta, contro la ‘tecnica’ dell’informale, così come l’astrazione dalla tecnica manuale da parte del Concettuale, sono oggi riconoscibili come tecniche relative e specifiche, benchè nella loro intenzionale indistinguibilità dall’invenzione e dall’enunciazione dell’idea). Ma, a fronte del caso -effettivo- del passaggio dell’immagine dal significare lo spazio all’essere lo spazio, la Calcografia non può che seguitare ad imporre all’immagine il sistema chiuso delle definizioni categoriali costituenti la sua identità, dall’esito più lato a quello più pratico della conservazione di una condizione di materia e formato (ad esempio: non troppo grande, come i disegni e le stampe e le fotografie tradizionali, che in genere non sono troppo grandi e rispetto a cui i grandi formati dei cartoni o delle stampe montate ad unicum, sono delle eccezioni previste ed accettabili). Questioni di minuta conduzione museale? Non credo esistano, nel Museo, molte questioni che non rinviino ad un problema della storia dell’arte, con conseguenze sulla fenomenologia dell’attualità. La Calcografia, storicamente dedita alla sperimentazione linguistica dell’attualità, non si adatta; impone, con “pesantezza”, la propria identità conservatrice. Rispetto alle molte mostre di Mambor, tutte mostre di presentazione di fasi del suo lavoro, quindi mostre di verifica personale, di confronto, mostre complici, se si vuole, dei contenuti proposti, questa è radicalmente diversa e, per via dell’interlocutore museale, è piuttosto uno scontro. Una mostra guidata da un tema: quello dello scontro con la condizione convenzionale, come dire “Mambor alla Calcografia”, dove l’istituzione conservatrice esercita una provocazione dialettica, essenziale, perchè le proprie definizioni di opera e di tecnica non perdano il contatto con la storia e proseguano a detenere significato. Il catalogo esprime questo taglio: per percorrerlo, comprenderlo e meditarlo, propone di seguito un itinerario tra le voci critiche, ed autocritiche, che hanno accompagnato, dal Sessanta ad Oggi l’opera di Mambor.

Sala I

Nel 1960 Renato Mambor ha ventitrè anni. Da questo momento l’esigenza primaria è sgomberare l’arte dalla tradizione. Ricercare l’azzeramento dell’immagine e della sua tecnica perché l’arte possa riprendere a significare. “Togliere l’io dal quadro”. Fare un’immagine, evitando l’espressione soggettiva e quindi spogliata da ogni elemento di scrittura personale: ridurre la tecnica ad azione emblematica dell’esecuzione 1962 (Uomo segnale, n.4; Uscita, n.5; Uomini statistici, nn. 6-9) Mambor parte dalla segnaletica: perché il segno stradale indica un uomo quantitativo, privo di caratteristiche individuali e perciò fortemente oggettivo. Proprio quello che l’artista sta cercando, inoltre, l’arte‚ tradizionalmente composta di forma e contenuto simbolico: ma il simbolo ‚ già comunemente utilizzato nella realtà, ad esempio nel codice pubblico urbano; da qui, di questo genere di simbologia comune al posto di quella esclusiva e tradizionale dell’arte. 1963 (Uomini timbro, nn, 10-17) La sagoma oggettiva, “statistica”, può essere ripetuta all’infinito tramite una matrice, qual’è un timbro a pressione. Il segno iconico è inespressivo; l’atto artistico è però condotto con una spensieratezza così nuova che le riduzioni cromatiche a uno o due colori e le immagini stereotipe risultano portatrici di uno straordinario sentimento vitalistico e di sconosciute qualità pittoriche. Tutto questo iniziava dalla ricerca del 1960 (Prototipo di scarpa n. 2; Segnale semaforo, n.3): il foglio considerato come semplice superficie piana, bidimensionale su cui presentare segni di comunicazione, abolendo la qualità tradizionale del supporto, ora non più sede di rappresentazione tridimensionale, discorsiva, soggettiva. 1964-66 (Ricalchi, nn. 18-23): indaga le figurine dei rebus dalla Settimana Enigmistica. Ne deriva alla ricerca linguistica della propria arte il forte carattere denotativo, che nel rebus è essenziale, dovendo la figura essere il più possibile fedele al vocabolo che “rappresenta”, perchè se ne possa rintracciare l’equivalente verbale. Le opere di questa fase illustrano porzioni di realtà comune, azioni e verbi elementari, con conseguente riappropriazione del loro significato, dove questa volta è l’arte a produrre un rinnovato ed innocente apprendimento elementare, attraverso un’esibita neutralità esecutiva che discende dal rifiuto di considerare l’artista come un individuo privilegiato nella società. La vetrina contiene, nella loro identità di oggetti, gli archetipi delle diverse fasi dell’Opera di Mambor: sono le sue matrici, in senso tecnico e concettuale allo stesso tempo.

sala II

E’ proprio della cultura d’avanguardia divorare se stessa, così come è proprio della scienza superare se stessa: i Segnali distruggevano gli esordi da pittore di Mambor, i Ricalchi esaurivano la fase degli Uomini statistici e dei Timbri; intorno al 1967 interviene una crisi linguistica ancora più radicale (Fatica di parlare/ un uomo ha fatto/ un gestoe le parole/ sono affogate, n.24). Quando le analisi sulla superficie pittorica stanno per esaurirsi, Mambor ne prende le distanze, per evitare di essere soggettivamente coinvolto a livello di impasto materico. Nel corso degli anni 1967-1970 convive la risposta analitica alla crisi, attraverso il rinnovamento essenziale della conoscenza stessa (Studio sul tramonto del sole e Filtro, nn. 26-30); con lo sconfinamento dell’esperienza e dell’azione artistica nella socialità (Rulli, nn. 31-33): “L’arte è dentro la vita. Basta modificare il nostro sguardo. Perchè. Ciò avvenga è necessario cambiare pensiero”. Il soggetto (tema ed individuo) messo da parte nel corso degli anni ’60, per risolvere problematiche linguistiche di tipo analitico, a questo punto chiede di riemergere, anche attraverso l’uso del mezzo fotografico, intervenuto dal 1966. L’opera e i suoi caratteri formali sono a questo punto la documentazione di un’azione o concettuale o comportamentale che ha sostituito l’oggetto aristico. Così per Cane n. 35, 1970: “Partecipai a un’operazione di innesto su animali: la sola testa di un cane donatore veniva trapiantata sul corpo di un altro cane. La violenza biologica aveva creato un’immagine irreale. Se tale immagine fosse presentata da un artista in un quadro, il fruitore sarebbe rassicurato dal fatto che ciò non è dire una particolare espressione dell’artista, una sua maniera di manipolare nell’immagine la realtà. Ma questa volta la realtà era stata manipolata concretamente. A me solo il compito di documentarla. Prima di fotografare il risultato di questa operazione a cui io partecipai direttamente misi vicino al corpo dell’animale la parola cane. La usai come un freno per impedire cioè alla descrizione fotografica di diventare altra cosa.” O per L’ultima riflessione, n.34, 1969: “è anche essa una esperienza di fotografia, nella prima mi fotografo davanti a uno specchio mentre un fotografo riprende a sua volta la mia azione, la seconda foto è quella scattata invece da me e riprende solo lo specchio con le nostre due immagini riflesse; la terza mi coglie nell’atto di frantumare lo specchio, gesto che dovrebbe cancellare ogni forma di specularità. In realtà però l’operazione si svolge in una moltiplicazione delle immagini in ogni pezzo dello specchio rotto”.

sala III

La documentazione fotografica dell’indagine sull’Evidenziatore (esperienza collettiva tenuta dal ‘l970 al ‘l974, radicale dispersione dell’oggettualità dell’opera nel tempo, nello spazio e nel coinvolgimento dello spettatore) si fronteggia con il recupero dell’opera, della pittura, della figura 1’1990-‘l996, nn. 41-52). Qui lo stereotipo è trasformato nella sagoma dell’Artista, come segno di identità umana in senso generale, e come guida di un percorso di riflessione attraverso la figura e la tecnica pittorica sui modi e gli atti dell’esistenza collettiva e della percezione individuale, rispetto ai significati essenziali dell’esperienza dell’arte (Osservatore, Riflettore, Testimone oculare, Uomo geografico, Uomo Mandalico, Il decreatore).

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